BORMIO 2010

Sabato 14/8: Tirano-Bormio km 93, dislivello 2800 m
Le nuvole arrivano senza troppa fretta da Sondrio, dall’Aprica si vede bene come il tempo tenta di evolversi. Di un altro tipo di tempo, a me ne rimane non molto per scegliere cosa fare. La sveglia alle 4:20 di certo non dà brillantezza, e le previsioni danno certo un peggioramento generale nel giro di poche ore. Non sono proprio i biglietti da visita giusti per presentarsi alle alpi.

Me la sento però, e allora come da programma ormai stilato settimane fa. Dico al mio babbo di accostare un paio di km prima di Tirano. A Bormio ci arriverò in bici. Mi cambio velocemente, tolgo la bici dal tettino e sono pronto. Il primo passo verso la mia meta è quello del Bernina. La prima vera difficoltà sono i binari del famoso trenino che porta a St Moritz: tagliano longitudinalmente l’asfalto e ho il terrore di infilarmici con le ruote e andare in terra. Quando mai si è visto un treno che passa lungo la strada??

Supero la dogana e la salita si fa seria davvero. L’altimetria iniziava da Poschiavo, questo tratto non c’era, ma meritava senz’altro che qualcuno lo misurasse, così mi sarei potuto fare un’idea. Invece mi ritrovo su rettilinei e vialoni molto ampi, ma anche molto pendenti! Secondo me siamo sempre attorno al 9%! Non mi sento malissimo, ma nemmeno come nei giorni migliori. Mi sforzo di calare l’andatura ma è più forte di me impostare il passo ad intensità da allenamento.




Fortunatamente la strada spiana, appare il Lago di Poschiavo e qualche km di falsopiano mi fa rifiatare un po’. Arrivo nel paesino suddetto e so che da qui inizia la salita vera e propria. Infinita. Da Tirano alla vetta sono circa 1900 metri di dislivello, numeri mai provati prima! So che la salita non è facile ma piuttosto regolare, fra l’8 e il 9 %, con qualche tratto più facile e qualcuno più difficile.




Ammiro la precisione svizzera, anche se qui sa tutto molto di Italia, ma solo per la pulizia dei bordi delle strade si capisce che la terra è quella elvetica. Non mancano anche momenti di inciviltà quando in una curva mi trovo davanti un pazzo (italiano) che sorpassava in un punto con visibilità zero. Fortuna che non sono una macchina e il frontale è evitato, ma resta da capire il motivo per il quale la striscia di mezzeria è tratteggiata anche in curva.

Fra tutti questi passatempi improvvisati la salita continua, e il non avere il contakm, unito alla mancanza di cartelli stradali che indicano i km, rendono tutto così infinito. L’unico punto di riferimento è la quota che tento di stimare, mentre per l’aumento irrefrenabile del mal di gambe c’è poco da fare. Finalmente poi arriva il bivio per la Forcola di Livigno. Da qui so con certezza che mancano 3 km! Sono quelli più lunghi, ma anche quelli più belli, perché le montagne si mostrano in tutto il loro splendore, fra nevi estive e nubi via via sempre più scure. La temperatura non supera i dieci gradi e me ne accorgo tutto insieme quando mi fermo in vetta. Paesaggio spettacolare. Primo obbiettivo raggiunto.







Manicotti, gambali e smanicato. Niente mantellina perché tanto la discesa è breve, poi si risale subito con la Forcola che si preannuncia breve ma intensa. Sicuramente il passaggio nella stretta e desolata valle d’alta quota vale tutta la fatica nel tratto più impegnativo, dove le pendenze superano il 10%! In fondo pensavo peggio però, arrivo in vetta senza troppo affanno. Foto al cartello, questa volta si alla mantellina, e discesa verso Livigno.



 
Tanti ricordi di questo posto, ma non miei, che mi riportano a pensare un passato non più vecchio di un anno. La svolta verso il Foscagno mi riporta velocemente al presente e alla stanchezza sensibile che sento nelle gambe. I passi che mancano sono due, Eira e Foscagno, ma in fin dei conti è uno solo, visto che sono separati da una breve discesa.






L’Eira, chiamato anche Trepalle, non è difficile ma lo patisco abbastanza a causa della stanchezza. Due ciclisti mi superano e tento di mantenerli a vista d’occhio per impostare un ritmo regolare. Con sorpresa ci riesco e praticamente scollino con loro sul primo passo. Non prendo nemmeno in considerazione l’idea di vestirmi nonostante la temperatura molto fresca, ma la discesa è corta e non ne vale la pena. Sono vestito estivo ma non sento freddo fortunatamente.





Ricomincia la salita, l’ultima, e per la prima volta sento qualche goccia. Niente di preoccupante, perché smette subito, ma indubbiamente non manca molto prima che inizi a piovere. Gli ultimi metri di ascesa passano lentamente e sento un po’ di freddo. Si sta alzando il vento e abbassando la temperatura. In cima fermata lampo per foto e vestizione e via giù verso Bormio con una pioggerellina molto leggera che smette dopo non molto.




Mi faccio vivo telefonicamente ai miei e arrivato a Bormio trovo il mi babbo che mi aspetta lungo la strada e mi riporta all’appartamento. Tempo di entrare in casa e inizia a piovere… che culo! Massima soddisfazione però. Programma rispettato e un bel giro di oltre 90 km per 2800 metri di dislivello. Non resta che sperare che domani il meteo non sia troppo cattivo.








Secondo giorno: dei Laghi di Cancano e del Gavia, 88 km, 2300 m+


Ovviamente sono il primo ad aprire gli occhi in questo Ferragosto, in questa casa. Aspetto che qualcun altro si svegli prima di alzarmi. Fuori è molto nuvoloso e minaccia pioggia. Non si parte molto bene, intanto faccio colazione. Riguardo fuori e piove, tempo poco e smette, non c’è tempo da perdere, in fondo l’acqua non ha mai ucciso nessuno.
Oggi si improvvisa, o quantomeno nessun giro circolare da fare, visto il tempo meglio non allontanarsi troppo. È il giorno buono per fare la salita verso le Torri di Fraele, a vedere le foto dovrebbe essere interessante. Una bella salita poco conosciuta e a due passi da Bormio.
Non è molto caldo e decido per i pantaloni lunghi, dovrebbero evitarmi i dolori ai ginocchi quando mi si ghiacciano. Anche la maglia è lunga, primaverile. Le prime pedalate portano alla luce delle gambe un po’ durette e la sensazione di essersi vestito un po’ troppo. Per la prima c’è poco da fare, per la seconda apro un po’ la maglia. Cerco di non forzare subito e faccio i primi km della statale verso Livigno con calma.








Pochi km e arriva il bivio che mi interessa, dove giro a destra. Inizia la salita vera e propria, anche in maniera abbastanza decisa ma subito spezzata da una seconda svolta a destra che mi coglie quasi impreparato. La prima impressione è di essere in un ambiente non dico selvaggio, ma sicuramente meno battuto delle più rinomate mete della zona. L’impressione non è tradita dalla realtà dei fatti fortunatamente. La salita non è mai troppo dura e l’ambiente è “accogliente”.


Un paio di tornanti, poi un rettilineo con delicate semicurve che pare non finire mai. La strada costeggia la montagna, gira insieme a lei e come dal niente mi appaiono in lontananza, in alto, le due torri. Le scorgo con un po’ di difficoltà data la mia vista scadente, ma nonostante questa riesco anche a intravedere la serie impressionante di tornanti che incolla la strada al monte.





Le pendenze non sono mai troppo dure e il continuo destra-sinistra su per i tornanti è veramente divertente. È bello dopo ognuno vedere le torri che si avvicinano e la strada sotto di me si fa sempre più notevole. Uno dopo l’altro tutti i tornanti sono alle spalle e davanti ci sono un paio di gallerie. Sono un po’ l’incubo di ogni ciclista, perché le macchine fanno una paura tremenda in queste condizioni, al buio e soprattutto quando il tunnel fa delle curve.






Fortunatamente macchine non ne arrivano e le attraverso senza problemi. Eccole! Le Torri di Fraele! Mi affaccio dal muretto che delimita la strada e la bella serie di tornanti appena fatta si mostra in tutta la sua bellezza. Sicuramente una delle più belle salite che abbia mai fatto. Fra l’altro neanche lunga e per le gambe di oggi è un gran piacere non insistere più di tanto.



La strada, volendo,continua e porta ai laghi. Non so cosa fare. Massì, un’occhiata posso anche andare a dare un’occhiata, nella speranza che il cielo non si oscuri più di tanto. Neanche cento metri e la strada diventa sterrata, ma bella battuta. Ha piovuto tutta la notte, basta evitare le pozzanghere. Arrivo al centro informativo del parco nazionale, poi un bivio che da una parte sembra portare a una strada lungo il lago. È più forte di me e la imbocco senza pensarci su.







Pian piano le condizioni della sede stradale si fanno peggiori, ma dopo aver fatto il Foce a Giovo posso tranquillamente convincermi che questa è un’autostrada a confronto. Fra sali e scendi più o meno difficili arrivo alla diga che separa il lago di San Giacomo da quello di Cancano. Si può passare sopra, ma arrivato a metà mi fermo, visto che il vento mi manda da una parte all’altra e non mi pare il caso di ritrovarmi in terra su una diga.
Torno indietro, arrivo di nuovo alle torri, e mi vesto per scendere. Prima però mi rendo conto che ho ridotto la bici davvero male, in condizioni da mtb.







Discesa veloce e sono di nuovo a Bormio, stanco. Potrei fare una vallata laterale alla Valfurva, senza uccidermi. Si, vado lì. Seguo le indicazioni per il Gavia e inizio a percorrere la vallata. Come strada, è un po’ fuori dai canoni di fondovalle, perché le pendenze, vabbè che ho un mal di gambe micidiale, mi pare siano decisamente sensibili. Proprio con questi pensieri si fa spazio nella mente l’alternativa che non dovrebbe esserlo. La strada per il Gavia… perché no… perché è meglio non esagerare!

Così senza neanche troppo volerlo mi ritrovo a fare rettilinei impegnativi verso Santa Caterina. Il dado è tratto. E facciamo anche il Gavia. Il versante è quello meno prestigioso, ma sempre una salita eccellente rimane, soprattutto per chi come me è abituato a fare ascese molto più corte e con meno dislivello.



Il pavè di Santa Caterina infligge punizioni fuori programma alle gambe. Cartello del tredicesimo km, sono a metà, ma il meglio deve ancora venire (disse quello che mangiò il restrello e cahò il manico). Esco dal centro abitato e la strada nel bosco mi colpisce perché mi immagino che a farla al contrario sia estremamente divertente. Adesso però no, sto scoppiando e maledicendo me stesso per non aver montato una compact. 39x21,23 alternato ma inutile dire che non potrò andare avanti così per molto. Infatti quando il bosco si fa più rado e mi appare un cartello che indica pendenze al 10% inserisco il 26. Fortunatamente l’ambiente inizia a cambiare e l’altitudine mostra le sue prove.







Sono assolutamente cotto, vado su a stento e ogni dieci secondi guardo su per cercare di intravedere la cima. Ci si mette anche il vento, contrario, freddo. È una tortura, ma chi me lo fa fare? Pure i cartelli chilometrici spariscono. Poi ne appare uno che indica il rifugio Bonetta: 4,5 km. Passano più lentamente che mai, nonostante non ci siano tratti molto impegnativi salgo in modalità ottuagenario.




Il laghetto, le nuvole che si scambiano di posto, la lingua d’asfalto che sembra divorare pure il cielo, la fame di salita si conclude alla vista dell’agognato passo. Per adesso è il punto più alto che ho raggiunto in bdc, sicuramente quello più combattuto contro me stesso, contro una giornata no epocale. Fa freddo, foto veloci e coprirsi bene.






Menzione particolare per la discesa. Non sono certo un drago, ma un divertimento pazzesco, con non so quanti sorpassi e quante curve al limite. Spettacolare, a sapere che non viene su nessuno sarebbe favoloso. Tutto però non si può avere e mi accontento di farmi accompagnare dalle pendenze fino a Bormio. Per oggi basta davvero, sono distrutto.







Giorno 3: dello Stelvio bianco e di Bormio 2000, 61 km, 2200 m+

Mi azzardo a pensare che male come ieri non sto, ma aspettiamo a dirlo. Sono le 8 e un quarto circa e fa piuttosto freddo, con la maglia a maniche lunghe primaverile non sto male. L’unico problema è che il passo è un tantino più alto di Bormio. Durante la notte ha sempre piovuto, le strade sono ancora umide e le cime dei monti imbiancati fanno pensare. Cosa troverò lassù?





Adesso posso dirlo però, sto meglio di ieri. Bene. I primi km sono già fatti, tranquilli, cerco di concentrarmi sulla salita. Imposto un ritmo che non mi affatichi vista la lunghezza della stessa. I rapporti sono sempre un po’ stretti, ma quelli sono. Non posso salire più agile, in cima poi mi ci vorrebbero denti che non ho.





Bella l’idea di dare un numero a ogni tornante, con tanto di indicazione delle quota. Più dei km, è quello il parametro che conta. Cerco di contare i metri che mancano, e mi spavento a pensare che l’intera salita ha un dislivello pari a 1,75 Monte Serra, oltretutto più impegnativo, sia per l’altitudine che per la quota.
Sicuramente la salita è affascinante. Dicono che dalla Val Venosta sia il lato nobile dello Stelvio, spero di poter fare un confronto prima di tornare, ma intanto mi godo la bellezza di questo lato. Le gallerie buie con terrore, il fiato che si fa vapore, la gola che si ghiaccia e la nebbia che si alterna al sereno. Salgo bene, mi piace questa salita.




Mi interrompe i bei pensieri una scritta sull’asfalto. Indica 14%, lo sento e inserisco il 29 per non appesantirmi più di tanto le gambe. Faccio bene, poco dopo “spiana” e ritorna alle pendenze di sempre con una serie di tornanti affascinanti. Menomale che la nebbia se ne va proprio mentre mi accingo a fare questo tratto, uno dei più spettacolari. Vedere dall’ultimo tutta la serie appena fatta è già una soddisfazione pazzesca.




Circa 2150 metri di quota. Ne mancano 600. La strada entra in una valle prima strettissima e poi ampia. E qui vedo per la prima volta il tappeto bianco, onore steso durante la notte, ma non credo sia per il mio arrivo. E mi rendo conto che fa veramente freddo cavolo, l’aria che si muove, non è vento, mi fa ghiacciare i vestiti addosso.




La salita da un po’ di tregua, un tratto più leggero invita a riempire i polmoni, dopo si potrà rifiatare soltanto in vetta. Ricomincia a salire sensibilmente in corrispondenza delle prime nevi. Sempre più freddo. Arrivo al bivio per l’Umbrailpass e raggiungo questo passo, ma per fare la foto di rito preferisco affrontarlo dal versante svizzero. Mi riporto sulla strada per lo Stelvio, mancano appena 3 km. Sono i più duri, vuoi il freddo micidiale, vuoi la stanchezza, ma sento tutta la salita nelle gambe e nonostante non si vada oltre il 9% mi pare di fare il Mortirolo.






Rimane comunque uno spettacolo. Il primo Stelvio, in queste condizioni, si farà ricordare. Conquisto il valico più alto d’Italia con grande soddisfazione mentre inizia a nevicare. Ma quanti gradi ci saranno? Pochi, sicuramente troppo pochi, perché nonostante lo smanicato, il termico e la mantellina, a scendere congelo. Dalle mani, agli orecchi, ai piedi. Cerco di divertirmi ma sono troppo bloccato. Peccato.




L’intenzione era quella di scendere verso Santa Maria e poi risalire l’Umbrail, ma il cielo nero e il freddo che ormai mi era entrato addosso mi fanno desistere. Ritorno a Bormio, può bastare anche così. Ma ovviamente così non è, perché visto che la giornata si preannuncia breve decido di andare a Bormio 2000.







Mi pare incredibile che lassù Cunego ha vinto la sua ultima tappa al giro, la bellezza di 6 anni fa. Quante disillusioni sono passate.

Inizio la scalata con un piglio deciso stavolta, la lunghezza è di quelle a cui sono più abituato, in più ho il terribile bisogno di scaldarmi. I primi km sono molto sofferti, poi riesco a sbloccarmi e vado su molto meglio. La salita non è niente di particolarmente spettacolare, discretamente impegnativa ma al tempo stesso anonima. Una salita “artificiale”. Oltretutto Bormio 2000 è una mezza fregatura, la strada arriva fino a 1952 metri. Pubblicità ingannevole.





Rimane comunque un’altra salita da annoverare nel carniere. Adesso basta davvero però, ho voglia di un bel piatto di pasta al pesto.




Giorno 4: di livigno, della Svizzera e dell'Umbrailpass. 105 km, 2800 m+


Tredici gradi stamani, di sicuro più caldo di ieri, ma di quanto non so. Ritrovo con Mario e i paperini alle ore 8:15, ma prima delle 8:30 non si parte. C’è anche il mi babbo, ma decide di avviarsi sennò poi fa tardi. Conosco i tre ragazzi che non avevo mai visto prima e si parte alla volta del Foscagno.



Salita già fatta dal versante, breve, opposto, e che adesso valicherò dalla parte più lunga, con i suoi quasi 1100 metri di dislivello. In compagnia la salita passa sicuramente meglio, soprattutto perché fra una parola e l’altra riesco a non esagerare come invece farei da solo. Non ci sono tratti particolarmente impegnativi, come prima difficoltà è ideale. È piacevole vedere come metro dopo metro il paesaggio cambi.





Arriva il tratto delle gallerie, segna la parte finale della salita. In cima servizio fotografico completo. Gli altri sono convinti che la discesa li porti direttamente a Livigno, ma li disilludo dicendogli che c’è da fare l’Eira prima. Uno strappo, più che una salita, ma le pendenze sono tutt’altro che agevoli. Con un po’ di difficoltà nelle gambe superiamo anche questo ostacolo e, adesso si, la discesa ci porta direttamente a Livigno.




Gli amici paperini si fermano nella cittadina ivaesente, li saluto, perché ho in programma un giro più lungo, mentre loro tornano a Bormio. È il primo giorno per loro, fanno bene a non esagerare. Io invece prendo la direzione della Svizzera, costeggiando il lago artificiale e percorrendo le famose gallerie, tratto di pianura tanto utile a tutti i prof che sono qui ad allenarsi. Bada chi si vede, Pozzato mi supera a velocità doppia. Mi trattengo dal prendergli la ruota, è una vita che non faccio un po’ di pianura ed è meglio approfittarne per fare un po’ di agilità.




Arrivo alla dogana, la signorina mi dice di aspettare la navetta al parcheggio. Per chiamare parcheggio una curva più ampia della norma ce ne vuole, ma mi attengo alle indicazioni e lì aspetto. Conosco un gruppo di romani molto divertenti, così la mezz’ora di attesa passa più veloce. Finalmente poi arriva la navetta, carichiamo le bici, saliamo e in pochi minuti siamo in Svizzera.

Subito fuori dalla galleria inizia l’Ofenpass con una bella rampa non troppo lunga. Le gambe soffrono un po’ l’interruzione del gesto, ma a riprendersi non ci mettono molto. Bella salita questa, bell’ambiente, poco traffico, veramente piacevole. Ecco però che a parlare troppo presto si pagano le conseguenze. L’ultimo tratto è troppo, e sottolineo troppo, impegnativo per le belle parole che ho speso fino a un secondo fa.





La salita è maledetta, questa è la riprova. Il lato positivo è che non è infinito e l’agonia dura non molto. Raggiungo il terzo duemila della giornata, a quota 2165 metri. Tempo di mettermi lo smanicato, non è caldo ma nemmeno freddo, e mi butto verso Santa Maria, detto all’italiana perché col tedesco non ho molta familiarità.

Butto però è la parola giusta, perché la discesa è veramente pendente e regalatrice di scorci di strada che lasciano a bocca aperta. Non mi sento a mio agio con la bici però, i freni non sono ben bilanciati e non ho voglia di fermarmi. Mi rifarò a scendere dallo Stelvio. In un tratto più facile mangio, così da essere subito pronto all’inizio della salita. Inizio che arriva un po’ a sorpresa in mezzo al paesino. Il cartello della deviazione per l’Umbrail è piazzato circa due km non è una grande trovata. Senza contare che al bivio i cartelli sono piazzati sotto al tetto di una casa!



Menomale che ho gli occhi buoni! Si, come no, mi faccio battute da solo perché so perfettamente che dopo la svolta ci sarà poco da scherzare. La salita è subito dura con tratti che superano il 10%, entra nel bosco attraverso una sede stradale stretta che quantomeno rende l’idea della difficoltà effettiva. I primi 4 km sono praticamente tutti così, ma salgo bene alternando il 21 e il 23, mi sento bene devo dire, e mi piace proprio questo Umbrailpass!





Supero una bella serie di tornanti, un tratto praticamente rettilineo e comincia il tratto sterrato. È in buone condizioni, sarebbe bello anche in discesa. Percorre la valle da una parte e dall’altra, mi viene spontaneo girarmi indietro per vedere il suo tracciato. Dopo un ponte però, a sorpresa, ritorna l’asfalto. Peccato, pensavo durasse di più.




E allora si continua a salire. Le sensazioni sono sempre buone, mi fa piacere che finalmente questo mal di gambe inizi a passare. Questo è il giro più lungo, è il quarto giorno e come mi immaginavo col passare dei giorni sto sempre meglio. Speriamo che il trend continui anche domani. Mentre invece con mia sorpresa mi inizio ad annoiare. Il tratto sterrato mozzato così presto, unito al fatto di non riuscire a scorgere la cima mi mandano in crisi mentale. Non vedo l’ora che finisca!





Ogni tornante spero sia l’ultimo, ma di tornanti continuano a passare e la cima a nascondersi. Supero tanta gente, cerco di velocizzare i km ma niente da fare, non vedo il passo! La valle è brulla e senza alberi, se non fosse per le moto e per il loro rumore penserei di essere fuori dal mondo. Riesco comunque a sentire le marmotte.




Ma eccolo!! Benedetto cartello della dogana! Giro la curva e vedo il valico, e vai! Con questo quarto duemila della giornata posso anche tirare i remi in barca. Volendo ci sarebbe lo Stelvio a 3 km, ma rigetto l’idea. Ci sono già stato e ci devo tornare, meglio conservare le energie. Così scendo verso Bormio, non prima però di aver messo a posto i freni. Accorgimento utilissimo, perché mi diverto proprio, fra un sorpasso e l’altro, è una goduria terribile questa discesa!





Giorno 5: del Mortirolo e del Gavia, 117 km, 3300m+


Mortirolo e Gavia, è il giorno. Quando arrivo davanti all’ufficio informazioni sono già tutti pronti, manco solo io. Lascio lo zaino in ammiraglia e si parte subito in direzione Mazzo di Valtellina. C’è un po’ di insicurezza sulla strada da fare, pare che quella che evita le gallerie sia chiusa per frana. Un modo per passare ci deve essere per forza però!

Infatti a un certo punto troviamo un’indicazione più chiara che mai: “percorso per i ciclisti”. In pratica una salita di circa 3-4 km fuori programma, tanto per scaldare un po’ le gambe. A proposito, stanno benone! Durante la discesa superiamo la frana con una “pista ciclabile” costruita per l’occorrenza, e ci accorgiamo che il resto della discesa è decisamente pendente. A farla alla rovescia sono dolori.



Zig zag continui nel groviglio di strade per evitare la statale sulla quale non possiamo andare. È come una specie di superstrada, a finire sotto qualche macchina si fa presto. Evitarla del tutto però non ci riesce, perché a un certo punto ci si infiliamo dentro, ma accorgendoci dell’errore torniamo indietro. Chiediamo informazioni a una signora che ci dice che ci possiamo passare “perché dei ciclisti prima ci sono passati”. Il problema è che quei ciclisti eravamo noi!

Così, fra una cosa e l’altra arriviamo nella piazza della chiesa a Mazzo, lì ci aspettano i nostri “ds”, per alleggerirci prima della scalata. Sono l’unico a non posare il casco, ho paura di prendere delle frescate in quota. Per il resto mi libero di qualsiasi cosa, eccetto la macchina fotografica. Facciamo le foto all’imbocco della salita, attimo di concentrazione e via.



L’ultima, e unica, volta che ho fatto il Mortirolo è stata due anni fa, in occasione del giro. Mi piacque in una maniera esagerata. Vuoi per il calore del pubblico, per l’atmosfera, per le pendenze o non so cos’altro. Una volta è bastata per dire “questa è la mia salita preferita”. Adesso è la riprova, senza atmosfera del giro, vivendo la salita nella sua intimità.




Mi ricordavo che l’inizio era una delle parti più semplici, ma stavolta mi sembra che l’inizio sia troppo breve. Tira già da subito, ma scelgo di salire senza forzare, tranquillamente, è lunga e dopo c’è il Gavia. Il gruppetto si fraziona già dal primo metro, io rimango con Sergio, ha il passo giusto. Entriamo nel bosco e sento arrivare un po’ di quella magia che mi ricordavo, fa uno strano effetto. Vorrei fare tante foto, ma un po’ per evitare di ribaltarsi e un po’ per poca voglia ne faccio poche.



Arriviamo così nel tratto che mi ricordavo perfettamente, il più duro. Mi accorgo di avere ancora il 23, ero convinto di avere il 26 mannaggia! Lo inserisco, il 29 lo tengo per dopo. Madonna come sale, e come mi piace questa sua regolarità, questo silenzio, questo profumo di bosco, questi tornanti che diminuiscono, questa valle che è sempre più lontana e più in basso. Bello che sei Mortirolo!



Monumento di Pantani, lo sguardo corre veloce lungo il tornante. È un attimo e siamo già proiettati al tornante successivo. Mi accorgo che Sergio ogni volta che la strada tende a spianare leggermente aumenta un po’ il passo. Un po’ mi dà noia, le gambe frizzano, il cuore reclama perché forse troppo rilassato su una salita del genere. Ormai non manca molto però, e infatti la salita tira un po’ meno.

In uno dei tratti dove spiana di più il “marescià” aumenta sensibilmente e perdo qualche metro. Poi un tornante, ritornano pendenze attorno al 9% e decido che forse è il momento di togliersi lo sfizio su questa salita sempre più bella. Butto giù un dente e imposto un passo regolare, senza esagerare, ma deciso. Lo riprendo e tempo poco rimango da solo. A questo punto continuo così come ho iniziato. Il cuore si è già abituato e mi sento davvero bene.





Un maledetto camion che scende mi costringe a mettere il piede a terra. Poche centinaia di metri dopo accade lo stesso perché due trattori occupavano tutta la sede stradale, costringendomi a passare nel fango della banchina. La stizza se ne va così velocemente come è venuta quando l’arco di trionfo che non c’è mi introduce alla radura dei pascoli. Il bosco finisce e inizia la fine. Sono emozioni troppo belle, indescrivibili, non mi rendo conto nemmeno della fatica. Arrivare sul passo è un attimo, così come rendersi conto che questa è veramente la mia salita preferita. Non so se è la più bella, ma so perfettamente che da qualche parte dentro di me c’è qualcosa che mi lega a questa ascesa.
Intanto sono arrivati tutti, mangiamo e facciamo le foto. Sergio mi dice che ci abbiamo messo 1h5’, un minuto in più di quando lo feci l’altra volta, il giorno del giro, che salii a tutta! Forse stavolta avrei potuto scendere sotto l’ora, ma non mi interessa molto, c’è anche il Gavia da fare ed è meglio essersi trattenuto un po’.


La discesa verso Monno è davvero molto bella, strada abbastanza stretta e curve tecniche. È un piacere buttarsi giù al massimo delle mie capacità, non eccelse ma sufficienti a divertirsi. In fondo aspetto gli altri e mi spoglio un po’, in cima nell’attesa sono congelato e mi sono messo addosso tutto quello che avevo.



Prima di arrivare a Ponte di Legno ci fermiamo a mangiare. Forse 3 panini sono troppi, a ripartire ti ci voglio. E infatti la ripartenza è traumatica, faccio parecchia fatica. I falsopiani, neanche troppo difficili, sono brutti colpi per le gambe e l’unica speranza che ho è quella di cominciare la salita il più presto possibile. Infatti ad arrivare a Ponte di Legno non ci mettiamo molto. Seguiamo i cartelli per il passo, ma ci fanno passare fuori dal paese, facendo un paio di km di salita, per poi riscendere su di esso.



Per questo il “Taglia” e il “Landa” litigano per un po’. Ci pensa il Gavia però a placare le polemiche. La salita è iniziata. Sinceramente non mi sta piacendo per niente. Sembra una statale di primo livello e a livello di paesaggi non regala niente. Salgo a regime ridotto per aspettare tutti, evitando di congelare in cima come prima. Il sole se ne è anche andato, così come la vastità di colori che faceva risplendere fino a un attimo fa.




Dal nulla la strada si restringe a metà, entra nel bosco. Tutto cambia registro, sia come durezza che come bellezza. Adesso si comincia a ragionare, quantomeno sulla bellezza di questo passo, per le pendenze ne facevo volentieri a meno, più che altro per le pochissime pedalate al minuto. È proprio bella però, e sale quasi come il Mortirolo. Un cartello nascosto a chi sale indica il 16%, me ne accorgo solo voltandomi per vedere il Landa che sistema il freno che strusciava sulla ruota. Caritatevoli.




Il cartello successivo invece non è nascosto, è un 14% chiarissimo dalla testa alle gambe. Poi finisce il bosco, la valle si apre intorno a noi e il solo peccato è che il sole manca e non rende merito a tutto quello che sta intorno. La strada priva di parapetti è un toccasana per l’occhio e per i sensi. Sembra di aver trovato la strada per l’eden. È tutto favoloso, mi perdo tra sensazioni e scatti che non riescono a immortalare a sufficienza quello che riesco a vedere.

Poi il terrore. La galleria. L’accordo è che la macchina ci scorterà da dietro, così da evitarci brutte esperienze. Invece io, Sergio e Mauro che eravamo un po’ più indietro rispetto a Mario e al Landa ci troviamo a iniziarla senza macchina, che è avanti. Una strizza terribile, e lunga. Da non sapere dove è il muro, la striscia di mezzeria, ah giusto, fortunatamente la sede stradale è più larga!



Aumento il passo perché voglio porre fine a questo terrore, ma sento arrivare da dietro una macchina. Chiudo gli occhi come per prepararmi all’impatto, e contraggo i muscoli del viso. La macchina passa senza mettermi sotto ed è una liberazione, ma mai paragonabile a quella della visione della luce, la fine della galleria. Quasi da commuoversi, esco e mi rendo conto di essere salvo. E quasi in cima.





Meno di 3 km, impegnativi, con le nuvole sempre più scure e il freddo sempre più pungente. La gola pizzica e le gambe pure, ma l’anestesia più efficace che c’è è vedere quel rifugio, quel varco fra le rocce e quel cartello così grande e stranamente spoglio di adesivi. Anche oggi è fatta, scendiamo che è meglio va.






Giorno 6: dell'Umbrail e dello Stelvio, 104 km, 3300 m+


È una mattina bellissima e pare che oggi il soglia voglia scortaci per tutto il giorno. Mi godo i primi raggi della mattina attendendo gli altri. Quando arrivano mi accorgo di essere l’unico a mezze maniche. Stamani mi prendo questa licenza senza troppo pensare, la salita inizia subito. Da Bormio si punta subito al primo gpm di giornata: l’Umbrailpass, quota 2500 metri.



Dicono che il versante nobile dello Stelvio sia quello altoatesino, ma a me da Bormio proprio non dispiace. Varia, con le sue semicurve del primo tratto, i tornanti che introducono alle gallerie, queste che introducono alla serie di tornanti preceduti da un tratto al 14%, i tornanti che introducono alla conca brulla e desolata, e questa che per la prima volta ti fa vedere il passo, lassù.



Già lunedì ero salito, c’era la neve e un freddo micidiale. Oggi c’è il sole ed è come farlo la prima volta, tutto mi pare diverso. E più bello. Me la godo, me la godo come fosse l’ultima salita della vita, sembra di vivere un’esperienza irripetibile. E sono belle anche le gallerie umide stamani, così come il punto spacca gambe. È bello girarsi e rigirarsi sui tornanti, guardare sopra e sotto, prendere tutto il sole che riesce a filtrare fra le cime ancora un po’ bianche.



Entrare nella conca è un’ondata di caldo dove non ti aspetti. Potrebbe durare ancora un’ora, dipendesse da me. So benissimo però che la cantoniera che sovrasta di lato la valle è il primo punto di arrivo della giornata. Siamo saliti tutti insieme e insieme arriviamo. Anche fermi si sta bene, che giornata favolosa, speriamo così rimanga.



Ci vestiamo, io un po’ meno del solito e iniziamo a scendere verso Santa Maria, attenzione allo sterrato. Attenzione, tanta da parte mia, e concentrazione. Mi sento veramente in pace con me stesso e con tutto, posso dedicarmi appieno a questa discesa. Solo in fondo mi accorgo di quanto sia sceso veloce, e bene. Velocissimo e sicuro di me sullo sterrato, preciso e reattivo nel tecnico tratto nel bosco dove sorpasso macchine nella via stretta con una tranquillità che quasi fa paura a ripensarci.

Tempo di pensare al resto adesso, dopo essersi alleggerito della mantellina, e puntare alle Val Venosta. Qui in vacanza, nel 2002, non beccammo neanche un giorno di sole. Non l’avrei mai detto che otto anni dopo sarei stato ricompensato. La valle risplende nel suo tepore, nei riflessi dei campanili e nei colori dei fiori fra un campo e l’altro.



Seguiamo per Prato allo Stelvio, girando prima di Glorenza. Nei pressi di Montechiaro ci fermiamo a mangiare in un posto di fortuna, senza commettere l’errore del giorno prima. Due panini bastano e avanzano, possiamo ripartire e goderci gli ultimi 3 km di pianura della giornata. All’incrocio di Prato allo Stelvio giriamo a destra e la scalata comincia.




Prima senza farsi troppo sentire, poi richiedendo un po’ di fatica a chi la percorre, la salita scorre nel suo primo tratto. Scorto il Taglia, seguo il suo passo e gli faccio silenziosamente compagnia. Una salita di 25 km, con la durezza e la regolarità che promette, ha bisogno della giusta mentalità. Forse sono troppo immerso nell’attesa del tratto storico che non faccio troppo caso al commento di Mario: “che fai potenziamento?”.



Solo quando un ginocchio inizia a reclamare e le pedalate ad essere sempre più difficoltose l’occhio scende per caso verso il movimento di centro. Che strano spessore, e che scuro sul 53. Non sarà mica..?? Lo è. Ho salito i primi 11 km di 53x19-21. Mi scappa da ridere, non riesco a trattenermi, ma come ho fatto a non accorgermene? Risalgo fino a trovare Mario fermo a una fontana, gli dico del fattaccio e giustamente mi dà del depravato mentale.




I 48 tornanti sono iniziati da un po’, ma solo adesso, nel bosco, sembra abbiano preso una loro regolarità. Anche a livello di pendenze sento una discreta regolarità, e sento le gambe in buone condizioni. Mancano dieci km e decido di salire del mio passo, cioè in soglia. Ogni tanto ci vuole, e parto con tanta convinzione. Il ritmo che imposto è davvero buono, vado su molto bene e i km passano piuttosto velocemente.




Fra un’occhiata verso l’alto e l’altra scatto qualche foto. Un ciclista tedesco se la ride quando mi vede salire così deciso, ma al tempo stesso impegnato a fare foto nei pressi di un tornante. Accenna a un applauso e quasi fa ridere anche me, non è il momento!





Il passo adesso si vede, capisco la leggenda d’asfalto di questa salita e dell’abbondanza di tornanti che tentano di coprire la mancanza di ossigeno che in fisica insegnano a non chiamare così. La poesia però non ha leggi e linguaggi che tengano, e per me è una poesia, è la scala del ciclismo la scalata che ho davanti. Sento la fatica ma continuo a spingere, ancora efficace, e me la godo così, pagando il biglietto col sudore per tanto spettacolo.




Fare l’ultimo tornante è una fra le più belle certezze, sai che dopo c’è solo quella linea immaginaria che segna un confine fra due terre e la memoria di tutti quelli che quassù passano. Il sole stavolta è mio testimone, la neve ritirata verso l’alto e un venticello non troppo fresco rinfresca la maglietta bagnata. Bravo Fabio, è andata.

Mi metto rapidamente lo smanicato e scendo a riprendere gli altri. Giro di nuovo la bici quando vedo il Landa a circa 2,5 km dalla vetta, e verso quella risalgo con lui. Dietro c’è ancora il Taglia, ma per motivi tecnici preferisco non forzare troppo i tempi. Arrivato in cima infatti mi dirigo alle bancarelle a comprare un pensierino. E penso che è più facile attraversare gli Champs Élysées all’ora di punta che la strada quassù adesso. C’è veramente il mondo, ma ce n’è tanto sotto di noi, e dopo un bel panino forse è meglio raggiungerlo di nuovo.


Giorno 7, dell'ultimo Stelvio e del Forte di Oga

Le previsioni non davano grandi aspettative per quest’ultimo giorno, ma svegliandomi mi accorgo che così male non è. Probabile che la perturbazione arrivi più tardi, meglio comunque evitare grandi imprese. Dovrò ritornare da queste parti però, perché l’idea di fare il Mortirolo da tutti e tre i versanti devo sicuramente trovare uno svolgimento.

Allora non c’è molto da pensare, forse oggi non sono nemmeno al top. Tosse e raffreddore sono apparsi con il giorno nuovo. Penso che l’ultimo Stelvio ci stia bene e dopo aver fatto colazione ed essermi cambiato sono già sulle prime docili rampe.

Appena le 7.35, macchine in giro abbastanza per Bormio, praticamente nulle sulla salita. Di ciclisti manco l’ombra, è davvero troppo presto. Ad essere mattinieri però di soddisfazioni se ne colgono. Mi immergo nell’atmosfera della salita, faccio riposare anche la macchina fotografica, e come un bagno termale i 22 km di salita mi rilassano fino all’ultimo neurone.



Quando arrivo in cima ci sono 3 persone, di cui una sono io. È bellissima questa calma, quasi paradossale se penso a ieri e al casino che c’era. Fra l’altro di ciclisti che scendevano non ne ho trovati. Sicuro non posso esserlo, ma ci sono serie possibilità di essere il primo della giornata ad essere salito quassù.



Senza troppo pensare e ghiacciare scendo verso Bormio. Decido di chiudere col pedale scalando una salita inedita, quella che porta al Forte di Oga.

Primi 4 km di medio impegno, con viste panoramiche su Bormio davvero interessanti. La Stelvio, pista da sci di coppa del mondo, si vede benissimo e mi mette una grandissima voglia di sciare. Invece non posso che pedalare, perché dopo il paesino di Oga una rampa assassina ampiamente oltre il 10% richiede tutto i mio impegno.




Superata quella non va molto meglio, le pendenze sono sempre impegnative. Fortuna che dura poco, due km e mezzo. Arrivo in cima e c’è un bar e l’arrivo di una pista da sci (infierire sulle voglie), ma non il Forte. Se c’è, per andarci c’è un impraticabile sentiero. Pazienza, sopravviverò.

Così scendo, per l’ultima volta, verso Bormio. La vacanza si chiude, mentre il diario dei ricordi si apre alla mia mente. Probabilmente rimarrà aperto, o forse chiuso per non farli volare via. Ne dubito però, ne dubito davvero.