mercoledì 28 dicembre 2011

Il profumo del gigante buono

Per farsi un’idea di quel che sia il Lautaret basta vedere l’altimetria. Per immaginarsi il resto basta aver visto qualche volta il Tour. Un’autostrada immensa, lievemente pendente, che attraversa una valle più o meno verde a seconda dei capricci delle nuvole. Di certo oggi le nuvole andrebbero cercate a lungo, ma il verde è piuttosto vivo di un fieno ancora lontano dall’essere messo in cascina.

La giornata è splendida e per essere il mattino in una cittadina di montagna è fin troppo caldo. Attraversiamo le strade urbane di Briancon e le splende rotonde tutte curate nei minimi dettagli. Tanti riferimenti ciclistici, ma anche dello sci. Mi troverei bene, sportivamente parlando, in queste terre.

Con le brioches ancora nello stomaco, la lentezza dei primi km è senza dubbio ben accetta. La lunga autostrada del Lautaret è già iniziata, ed il pedaggio si paga in natura con la noia. Sarà infinito. Anche se, a dirla tutta, le montagne qui attorno sono proprio meravigliose... e questa immensa strada è un po’ meno immensa di quanto pensassi. Chiariamo: è si immensa, ma non c’è quel caos che involontariamente, da buon italiano, mi ero immaginato. Non ci sono clacson a scandire come un tango la scalata, ne motociclisti appena usciti da Misano. È tutto così tranquillo...

Così, fra uno sguardo lanciato intorno, due chiacchere e un paio di pensieri, la strada passa più velocemente di quanto pensassi. La pendenza è così dolce da non stancare, le gambe girano che è un piacere e metro dopo metro mi accorgo di non annoiarmi. Mi godo il lento avvicinarsi di quote più ambite, la meravigliosa cornice delle alpi che sembrano tutte lì per me. E poi ecco anche arrivare quella leggera brezza di mattino e di alti prati, con quel suo profumo che soltanto chi l’ha sentito, almeno per una volta, può capire.

Mario, il capitano, ha praticamente scandito il passo per tutto questo primo tratto. Cerco di ricambiare con un paio di foto. Vengono male.
Le larghissime curve che precedono il Col de Lautaret arrivano quasi a sorpresa, ed allora inutile fare troppo foto: ci sbizzarriamo sul colle! Infatti ne facciamo diverse, chiamando ad unirsi anche un amico di Pistoia trovato durante la scalata.




Con altri 8 km si guadagna il Galibier, e non siamo certo qui per risparmiarsi. Il sole bacia i prati e la pelle appena lucida di sudore, mentre il vento d’alta quota si sveglia per acconpagnarci sino in vetta. La montagna, aspra ma benevola, ci protegge riparandoci un po’. E poi le scritte sull’asfalto parlano di una storia e di ruote impresse nella leggenda. Nell’aria ancora quel profumo e nel vento le voci parlano di mezza Europa che si ritrova e si unisce scalando un gigante buono.













È come magia, e nella magia mi lascio trasportare. Fianco a fianco col capitano, maestro di bici e di emozioni da imparare a cogliere pedalando, raggiungiamo il minuscolo spazio in vetta. Non c’è niente, ma c’è tutto per chi sa leggere istanti e sensazioni svincolate dal tempo e dallo spazio.








Ancora io e il capitano, mai stanchi di salite, decidiamo allora di scendere dalla parte opposta, di arrivare fino al Telegraphe e poi di ritornare indietro scalando così pure l’altro versante di questo dolcissimo gigante buono.
In discesa mi diverto parecchio nonostante il traffico, ma senza mai andare troppo oltre. In fondo alla discesa, a Valloire, riponiamo gli smanicati nell’ammiraglia personale a nostro seguito, guidata da Maurizio e Mariolino. E iniziamo il Telegraphe, per marcare visita ad un altro colle. Per non aver rimpianti.



Con ancora negli occhi il Galibier, ci sembra tutto monotono e terribilmente breve. In un attimo siamo in cima e pronti a ridiscendere verso Valliore.
E poi via, di nuovo in marcia verso gli over 2600 metri.
I primi km sono un lunghissimo, assolato, caldissimo e impegnativo rettilineo. Si susseguono case e casette, e sullo sfondo c’è la nostra vetta ad attenderci. Mario è un po’ in crisi, mi dice “vai!”, ma dove vado? Lo aspetto, non è una gara e la compagnia fa sempre bene per superare alcuni momenti. I rettilinei del resto finiranno prima o poi, e quando lo faranno non sarà altro che un piacere.















Inizio a star male anche io a dir la verità: una strana nausea. Chiedo un po’ di coca all’ammiraglia e tutto passa. Passa anche quel maledetto rettilineo e siamo nel cuore della salita. Ritorna il profumo di prati, la quiete della montagna e i suoi occhi invsibili su di noi, e la bellissima sensazione di essere niente in quel mare di rocce, erba, neve e cielo. Soltanto viaggiatori fortunati.












È pure caldo, ed a queste quote è un piacere. Ci godiamo tutto, e le foto a valanghe sono il tentativo di colmare i buchi della memoria che il tempo scaverà. Ma non nelle emozioni. Una salita magnifica, spettacolare e imperdibile. Esigente ed accogliente, non deve assolutamente mancare nel palmares di chiunque sappia amare questo sport.

Nella stretta di mani, poi alzate verso il cielo negli ultimi metri di una scalata memorabile, c’è tutto di quanto il ciclismo possa insegnare. E far vivere.




Il cielo è ancora perfetto, il profumo ancora intenso e il vento ancora vivo. Si può chiedere altro?
Di certo sappiamo che che quell’autostrada di montagna ci aspetta con i favori della gravità e con le noie di un assicurato vento contrario. Sarà bello anche quello però. Oggi sono in grado di non odiare il vento contro. Oggi è una favola, il resto non conta. Vorrei solo continuare a guardare tutto da quassù...

domenica 18 dicembre 2011

E fuori c'è il sole...

Per tutta la notte ho immaginato una mattinata di sole, di quelle che, nonostante il freddo pungente, riempie di sensazioni e piacere di pedalare. Con alle spalle la prima settimana di preparazione in vista della prossima stagione, le motivazioni alle stelle, questa domenica doveva essere la prima in cui tornare e far un po' di fatica per qualche salita della zona, in compagnia della squadra.







Ma che poi questa mattina sia di un grigiore squallido e fredda come il vento che l'ha portato, poco importa. Nelle gambe ancora le 4 ore di ieri, ma non stanchezza, solo la sensazione di aver lavorato bene.


E così il pomeriggio di ieri, con i miei genitori fuori casa e un esame andato bene appena il giorno prima, mi sono messo a fare dei lavoretti da niente, tanto per prendermi un fine settimana lontano dai pensieri dei libri e per rimettere in ordine un giardino e un orto messi a dura prova dalla burrasca di venerdì sera.






Le foglie sono tutte negli angoli, e anche se i ciuffi d'erba ribelli più alti degli altri sono davvero pochi, prendo il tagliaerba per fare prima e meglio.


Non parte. Pulisco il filtro dell'aria, ma nulla. Allora cambio la candela e finalmente parte.






Sono quasi alla fine, manca solo un piccolo pezzo attorno ai bulbi ch ho piantato l'inverno scorso. L'altezza del taglio deve essere regolata però abbassata.






Ed è qui, dove l'esperienza, la confidenza e la tranquillità entrano in azione. So bene dove la lama gira e dove non, è solo routine. Ma per un motivo per il quale ancora non mi so dare risposta, invece che mettere la mano sulla parte iniziale della macchinetta...


Mi chiedo cosa sia stato quel rumore a metà fra il sordo e il metallico. Un istante dopo mi rendo conto che sono i miei diti.






Ed è una corsa di sangue verso il rubinetto del garage, un crescente senso di svenimento che caccio via con la sola forza della ragione. Trovo la forza di guardare, e vedo la prima falange del dito medio rimasta attaccata soltanto per un piccolo lembo di pelle. Il polpastrello dell'anulare inesistente. La paura inizia a pervadermi, ma non è il caso di rimanere vittima di se stessi, adesso.






La benedizione del telefono in tasca, del migliore amico dopo pochi minuti davanti casa. Il pronto soccorso, e un intervento con 4 medici solo per me, per metà al lavoro sulla mia mano e per l'altra scherzando con me. Dicono che non perderò quel pezzo, che fra un po' ritornerò come prima, Fra un po'.






Per ora però, fra il dolore fortissimo che rimane di una giornata che non dimenticherò a lungo, e l'insonnia che tanta compagnia mi ha fatto per tutta la notte, riesco solo a pensare a cosa poteva essere questa giornata e le prossime decine senza una distrazione così stupida.






Guardo fuori dalla finestra, sogno di essere là davanti al gruppo a battagliare. Ignoro la chitarra elettrica di fianco a me che non so se mai potrò suonare come prima. E nonostante il grigiore di un inverno appena arrivato, riesco soltanto a immaginarmi una mattinata di sole. Una come tante.




mercoledì 26 ottobre 2011

sabato 15 ottobre 2011

Una storia di 20 minuti

Si si, lo so che c'è un discorso lasciato a mezzo da finire. Purtroppo però i racconti dalla terra di Francia hanno avuto la sfortuna di dover essere scritti in un periodo non proprio felice. E sono passati, ormamai chiusi dentro il calderone dei ricordi e, soprattutto, delle emozioni. Impegnandomi a chiudere questa faccenda, pur consapevole della difficilissima possibilità di rispettare questa mezza promessa, cambio subito discorso perchè quello di cui vorrei parlare c'incastra poco o nulla con la Francia.

L'unico legame che c'è è un grandissimo ritardo. Mi spiego. Una volta tornato dalla Francia avrei dovuto avere tutte le carte in regola per entrare nel periodo di condizione più importante della mia piccola e ridicola (almeno fanno rima) carriera sportiva. E in effetti è stato proprio così: che gamba che avevo! Il problema, però, non era nelle gambe ma nella parte alta del corpo, riportata nell'italica campagna non proprio integralmente.

Smaltiti i postumi della caduta, o perlomeno quelli maggiori, sono rimontato in sella dopo uno stop di oltre due settimane, quasi tre, in occasione del Giro cicloturistico della Toscana 170 km fra colline dolci e violente follie testate sul mio povero e incolpevole corpo. Ma è andata bene, con un finale chiuso in netto crescendo dopo una mezza crisi portata avanti per più di due ore.

I km hanno ripreso a scorrere sotto le ruote con la solita cadenza, e la normalità era di nuovo cosa per me.

Piccola parentesi: la corsa. Nonostante mille precauzioni, calma, costanza e tutto quello che volete, sono arrivato alla conclusione che il running non è una cosa per me. Quanti dolori! Tendini, menischi e quant'altro possibile all'occorrenza! Che gran rottura! E vista l'impossibilità (ancora) di preparare come si deve quella che doveva essere la mia prima mezzamaratona, ho deciso di puntare tutto sulla bici e di riprendermi quella condizone indebitamente sottratta da quella malaugurata caduta nella discesa del Col du Granon.

E rieccomi sulla bici, senza gare da centrare nel mirino, ma con l'unica grande volontà di battere un record da me fatto. Un muro mai ceduto sotto i colpi delle mie gambe. Un sogno trascinato e affinato negli anni, quando al suo compimento bastava sempre meno e sempre più appariva impossibile da raggiungere. Tutto questo ha un nome, o anzi due, insomma, tutto questo è il record sulla mia salita test: il Monte Serra. Un tratto di poco più di 6 km, 470 metri di dislivello, punti precisissimi dove accendere e spengere il cronometro. Una storia di tempi sempre più bassi negli anni, fino ad arrivare attorno ai 20'30".

Quanto tempo attorno a quel tempo! Non che i miei allenamenti siano mai stati mirati a migliorare in tal senso, ma un appiattimento delle prestazioni in salita stava cominciando proprio ad innervosirmi, a fronte di sensibili passi in avanti nel passo in pianura.

Dieci giorni fa, consapevole di aver ripreso quel tono e quella forma minima per sperare di combinare qualcosa di buono, tento l'assalto al tempo. Con me c'è mio cugino, che si rivelerà un portafortuna. Siccome però la fortuna non esiste, mi correggo e dico che mio cugino si rivelerà un accompagnatore piuttosto in gamba.

Faccio partire il tempo e come sempre entro nel mio mondo fatto di pensieri e canzoni in loop. Deboli anestetici di una fatica mai troppo semplice da descrivere. Il tempo che resisteva ormai da un anno era 20'20".
Come sempre non voglio nemmeno vedere il contakm, che lascio a casa, e a tenere il tempo è il cronometro del cardio (senza fascia). Scelgo di guardarlo quando alla fine della prova mancano appena poche centinaia di metri, e mi accorgo che il tempo è buono per stabilire un nuovo record! Via ad un fuorisoglia di dimensioni apocalittiche, di quelli che tolgono il snetimento. Ma ne vale la pena: 20'12". Ben 12" in meno! Ottimo, ma...

... ma sento che la condizione non è al top, che potrei comunque fare meglio. Quindi a distanza di una settimana ci riprovo. È ancora mercoledì e con me c'è sempre Ale. Faccio partire il tempo e sono di nuovo in quella realtà parallela. Peccato non sia Lost, con la mia bella Kate ad aspettarmi in cima! Sogni, solo sogni nati da acido lattico che pian piano invade gli spazi intracellulari. A metà salita mi accorgo che al posto del mio solito 23, stò tirando il 21 con le stesse rpm. Buono.

Quando arriva quindi il "belvedere" (che non è Kate, purtroppo, ma un punto roccioso panoramico) guardo il tempo e... ho già messo un dente in meno. A tutta, deve essere la volta buona! Le gambe si stringono in una morsa che si fa sempre più incandescente e quindi insopportabile, mentre i metri si riducono poco a poco. Meno 100, meno 50, meno che ci siamo quasi.... stop! 19'42"!

La cronaca di un capriccio di uno scemo? No, un sogno gratuito fatto ormai anni fa. Quando i miei tempi migliori navigavano attorno a 25 minuti, ebbi la voglia e avvertii la sensazione di poter, un giorno, fare un tempo sotto i 20'. E a 11 anni di distanza quel piccolo bambino astemio di bici, portato per la prima volta in bici da corsa sul Monte Serra e che da Buti fino ai Cristalli impiegò 50 minuti, può dirsi diventato quasi un uomo. Quasi, perchè la voglia di giocare con le salite e con i cronometri non è ancora finita; altri limiti sono là davanti. Stò arrivando. 

martedì 30 agosto 2011

Dove le pietre galleggiano nel cielo

Menomale che la colazione si avvicina di più ai nostri gusti e alle nostre abitudini. Piccoli lussi di fragranti sfogliatine, forse anche congelate, ma buone.
Gonfiaggio delle ruote, ma non per me, lo farò i prossimi giorni. C’è anche un po’ di emozione che vaga dispersa da un angolo all’altro: stiamo cominciando. Le strade ci accolgono con semafori rossi al punto giusto, tanto da frazionare il plotoncino. Ci separiamo e quasi perdiamo.
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Solo all’uscita di Carpentras ci ritroviamo. Il Landa si piazza davanti e lo farà fino a Bedoin, dove inizia la scalata. Passo regolare e tranquillo fra vigne basse, terre rosse e sole che fa capire quanto caldo possa fare quando lo vuole.
Un po’ d’indecisione a un’altra rotonda, ma dopo un’inversione ad u riprendiamo la strada giusta. Senza bisogno di cartelli, per capirlo basta vedere quanta gente c’è. Una processione.

I “Where are you from?” si sprecherebbero, e saltiamo da un gruppo all’altro salutando in modo differente. Non sappiamo che lingua usare, e forse il motivo è semplicemente che parliamo tutti la stessa. Variano soltanto gli accenti, si riuniscono in dialetti. C’è pace e tranquillità, e le pendenze sono veramente rilassanti. Solo un riscaldamento però, perché dopo un tornante si inizia a far sul serio.
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C’è molto più bosco di quanto immaginassi, e rettilinei più lunghi di quanto credessi. È dura. Ovviamente sono a regime lentissimo, inutile staccare i miei amici. Me la godo. Mi piace.
La luce inizia a giocare meno a nascondino, e si decide a uscire dagli alberi con più intensità. Si aprono visuali e appare pure lui, il gigante, fra le conifere spennacchiate.
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Ancora su, e ancora una processione colorata verso il proprio santuario. Si vede di tutto. In molti non prenderanno la bici più di 5 volte l’anno, penso. Ragazze soprappeso, bimbi strappati allo schermo di un pc, mamme private della confusione di un mercato. Vicini a scoppiare, ma felici e sorridenti. La ricetta per conquistare la vetta passa anche da soste più o meno lunghe. L’importante è arrivare.

Sono affascinato. Sono, su un santuario, ed è Mario che me lo suggerisce.
E poi il rispetto del ciclista, incredibile. Cartelli che indicano alle auto a quanta distanza tenersi dalle bici durante il sorpasso. Una corsia riservata alle bici per la scalata. Nessun clacson che suona, poche moto che tuonano.
Un santuario o un paradiso?

Così, quando arriva Le Chalet Reynard, sembra tutto iniziato da poco. Anche i lunghi tratti al 9% sono come un fastidio dimenticato per una gioia più forte.
Ultimi 6 km, ed iniziano i sassi. Prima in compagnia di qualche pioniero vegetale, poi nella solitudine di una infinita distesa. Sembra un deserto, eppure quanta vita passa per questo nastro d’asfalto?
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Pietre che galleggiano nel cielo, e noi come in un mare di silenzio. Sono le emozioni a parlare. Fra fotografi che rincorrono per il loro biglietto, facce viola per lo sforzo, una brezza dolce che si inizia a levare, la vetta è sempre più vicina. Quando arriva, l’accoglienza è degna della Grand Boucle, con un nutrito gruppo di inglesi a far baccano quanto solo i mediterranei, da reputazione, ne sarebbero in grado.
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Foto che non mancano e soddisfazioni incalcolabili. Io e Mario abbiamo già capito che in questi giorni ci sarà da divertirsi.
La temperatura non più di tanto frasca, il cielo sgombro da nubi e un vento più che accettabile, ci fanno vestire molto poco per la discesa. Nei pressi di Bedoin ci fermiamo per il pic-nic, all’ombra di una lecceta. Come sempre mangiamo più del dovuto,e i km restanti per Carpentras sono più una lotta con l’apparato digerente che contro il vento contrario.
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Doccia velocissima, che c’è da liberare le stanze. E poi via verso Briançon, passando su strade interne. Viaggio lunghissimo ed infinito, più stancante del Ventoux, che rimane lì negli occhi, galleggiando fra paragoni che tento di fare inutilmente. Soltanto una salita e una storia a se. Si può anche voltare pagina, domani ne scriveremo un’altra.


-->Carpentras-Bedoin-Mont Ventoux-Carpentras, 81 km

1) Il viaggio, l'arrivo, il furto

In bianco e nero, l’autostrada è solo un’istantanea che dimenticheremo in fretta. Parole e filosofie fra i viadotti e i tunnel della Liguria. Quanta noia.
Ecco, un posto dove non abiterei mai. Ci sono i monti, certo. C’è il mare, bellissimo. Ma l’abbraccio morbido delle mie terre che corrono ordinate verso il blu del tirreno non lo cambierei mai. Pianure mai troppo infinite, colline sempre curiose oltre la porta della foschia, montagne sul limite fra il vicino e il lontano, e mare di scogli e sassi da scegliere in base alla voglia.
La Toscana mi è dentro, nel cuore. Non ne uscirà mai.
Posso soltanto io, come adesso, uscire. Prima dalla mia terra, poi dalla mia nazione. Per ogni metro di suolo identico al successivo e diversissimo da quello un po’ più lontano, sono solo cartelli diversi a indicarmi che siamo in Francia.

Mario guida tranquillo, al comando dell’ultimo vagone del piccolo trenino partito da Prato alle 6 del mattino. In testa c’è il Taglia, Oscar 2011 per il rispetto del codice della strada. Nemmeno la totale assenza di autovelox sulle strade francesi lo spinge a spingere. Regolare.

Il pranzo è un’iniziazione al rito che ripeteremo per i prossimi giorni: zaini che si vuotano e stomaci che si riempiono. “O di paglia o di fieno, il corpo l’è pieno”, dice il Landini. Un caffé espresso che ha poco di Italiano scende giù nel corpo, con poco piacere e molta ustione, e non si può far altro che ripartire.

Lunga, lunghissima la strada verso Carpentras, o forse è solo la noia di arrivare. Do il cambio alla giuda a Mario, e nella cittadina poco lontana da Avignone compio una manovra da ritiro della patente sotto un semaforo. Qui non hanno nemmeno le telecamere, la mia tessera rosa può dirsi salva.
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La temperatura esterna è un colpo che ricade forte sul sistema immunitario, vista la frescura intensa all’interno dell’abitacolo. Un po’ di traduzioni alla reception e le valige in camera. Poi la spesa e la piscina. Il gigante può aspettare fino a domattina.
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Con la cena raffinata ancora sullo stomaco, e l’aria condizionata inarrestabile che arriva sul collo, il risveglio non può certo definirsi idilliaco. Ci ricorderemo a lungo di quanto le nostre membra stanno tentando di digerire. E pure le tasche, visto quanto costa una sola bottiglia di vino della casa. Ladri dalla parlata romantica.

venerdì 12 agosto 2011

Risposta al sig. Severgnini. I luoghi comuni

 I luoghi comuni


Splendida mattinata. Il sole è poco oltre le colline, e dalla finestra vedo il mare. Lei dorme ancora, lì nel letto. Lo farà per almeno un’altra ora.
Mi dirigo verso il bagno. I vestiti sono già lì ad aspettarmi, e dopo i classici bisogni indossare la maglietta ed i pantaloncini aderenti è un attimo. Gli occhiali e poi il casco, mai farne a meno.
Pronto per scendere, non indosso le scarpette ma scelgo di tenerle in mano e scendo le due rampe di scale con ai piedi solo i calzini, la bici con l’altra mano. Scivolare per le scale con gli scarpini è un attimo. Avrei potuto tenere la bici nella cantina dell’hotel, se fosse stata chiusa. Ci fosse almeno l’ascensore, ma niente, bisogna rischiare la vita sul granito levigato degli scalini. Ancor prima di salire in sella.

Il vento quasi assente, cosa strana per una cittadina di mare anche se è solamente mattina, mi spinge a percorrere un po’ di lungo mare. Più tardi, forse, la salita.
Una, due piccole rotonde ed è già il tempo di una frenata poderosa. Dei ragazzi entrano nel circolo rotabile a tutta velocità, la radio altissima e i postumi di una serata da sballo ancora da smaltire. Ridono. Io sono salvo.

Ho bisogno di un caffè però. La colazione la farò al ritorno, ma un buon caffè mi serve: le ferie sono anche queste piccole concessioni. Io che di mestiere faccio il barista, un caffè servito è una piccola soddisfazione.
Vedo un benzinaio con bar annesso, e decido di fermarmi. Appoggio la bici al muro, mentre un signore un po’ anziano stà ucendo. Mi rivolge la parola, ma non per un buongiorno.
“Ti sei fermato a fare il pieno? Riempi la borraccia con la bbbomba?”
Il mio sorriso silenzioso serve solo per tacita compassione, e per non prolungare una conversazione mai iniziata e già troppo lunga. Luoghi comuni.

Forte del mio caffè, riparto. Al ritorno dovrò dare un’occhiata alle geometrie della bici, perché la schiena ogni tanto fa male. O forse sono solo i miei 50 anni.
Per fortuna l’aria fresca del mattino, lo stress lasciato in città e questa tranquilla pedalata mi rimettono al mondo.
Non fosse per i continui colpi di clacson alle mie spalle, sarebbe ancora meglio. Sono da solo, sulla destra, su una strada ampia. Evidentemente tutti pensano di avere un autotreno. Oppure, semplicemente, non sanno guidare la macchina. Ovviamente però il problema sono io, che lì non ci dovrei stare. Dovrei usare le piste ciclabili. Ci fossero...
Luoghi comuni.

Su per questa salita nuova ed improvvisata, il nome di un paesino mi ricorda il cognome di un amico. Rido ancora, stavolta solo per i ricordi che ritornano, pensando a quante volte mi abbia detto di essere troppo vecchio per iniziare ad andare in bici. In effetti 45 anni non sono pochi. Così come non lo sono un pacchetto e mezzo di Marlboro al giorno lasciate al mio passato. O l’abbandono del forte soprappeso. O la ritrovata serenità con me stesso, con mia moglie, con il mio corpo.
Ma per lui sono vecchio, e il fatto che stia tremendamente meglio non conta. Ha lui la verità in tasca, la spende come vuole.

Intanto le rampe si fanno dure, e il mio cuore cresce nel petto. L’asfalto mi guarda dritto negli occhi, ma ho ancora la forza per gettare il mio sguardo oltre il tornante, oltre i cespugli, verso il panorama. La fatica non annebbia niente, è solo un modo per corteggiare le piccole soddisfazioni. Come quella, nuova e antica, ma mai uguale, di raggiungere il colle. E pure oggi l’ho raggiunto. La vista si perde nei riflessi del mare e nelle braccia accoglienti dei colli a picco su esso, illuminati da un sole ancora fresco.

Foto con il cellulare, poi la metterò su face. Già vedo i commenti di chi mi vorrebbe seduto su una sdraio a godermi il mare al posto suo, mentre invece sto soltanto perdendo tempo per due stupide ruote.
Luoghi comuni.

Discesa bella, tecnica. Tento di osare in un paio di curve. La prima ok, la seconda meno. Meglio scendere con più calma allora.
C’è chi mi darebbe dell’incosciente, ma penso sia solo vita che ancor scorre nelle arterie non più intasate di colesterolo come un tempo.

Di nuovo sulla statale lungomare, faccio rientro verso l’albergo, in un traffico più generoso di clacson di variegate tonalità.
Salendo le scale verso la camera, di nuovo scalzo e con entrambe le mani occupate, il sapiente di turno incrociato per caso mi chiede:
“Ora una bella flebo come fanno al Tour??”.
E ride. E io pure, tanta è la compassione che mi fa.

Entro in camera silenziosamente. Lei si è appena svegliata.
“Una doccia e scendiamo per la colazione ok?”.
Prima la mia flebo però: un multivitaminico. C’è chi mi darebbe del dopato per questo. Ma mi ritengo soltanto affezionato alla salute. E rimpiango gli anni in cui non me ne curavo.

Una bella colazione, meritata, ma equilibrata. La piccola concessione di un pezzo di dolce in più. Sono le ferie anche per me.
E poi le tranquille chiacchere con i vicini di tavolo.

E poi il mare, ed il giornale da leggere sulla sdraio. Che pace, che vita.
L’attenzione cade su un articolo ben firmato, di un argomento a me caro. Va sempre a finire così. Un signore che si concede di parlare di cose che mai ha vissuto in prima persona. Un signore che giudica con la bilancia dei luoghi comuni.
Ma è così, si sa. Luoghi comuni.
Dispiace solo per gli ignari lettori, sprovvisti di conoscenza in materia al suo pari, che prenderanno quelle parole per verità.

Ed io non sono quel cinquantenne che descrive, ne sono certo. E la maggioranza come me.
Puramente fedele all’unico confronto possibile, quello con me stesso, mi sento solo migliore. Non è mai troppo tardi per una passione, per lo sport. Nella maniera giusta.

E le ortensie le lascio a lui. E pure la passeggiata con un libro, magari proprio di ciclismo. La volta buona che, forse, qualcosa in materia imparerà.

Infine, stanco di leggere, getto via il giornale. Un barista, di chiacchere da bar, ne sente già a sufficienza senza comprare un’autorevole giornale. È arrivata l’ora del bagno. Sono le ferie anche per me.

mercoledì 27 luglio 2011

Trittici verso la Francia: una domenica speciale

Domenica 24 Luglio 2011: Colle della Lombarda, Col de la Bonette, Colle della Maddalena

Sveglia biologica: 3:59. Giusto un minuto prima dell’attacco di puro hair metal che da anni uso come sveglia. Meraviglie del corpo umano.
Giù di corsa, che di tempo non ce ne è molto. Uno yogurt e un caffè. E poco meno di 4 ore di sonno da farsi bastare per il resto della giornata.
Posso partire.

Casa di Ale, e soliti minuti di ritardo. Non cambierà mai, per fortuna. Recuperiamo il tempo perduto in autostrada, raggiungendo comunque in anticipo l’autogrill Versilia Est, luogo di ritrovo con altri trittici. Sosta al bagno e via.
Sosta successiva per un caffè, e abbandono dell’autostrada per volare veloci sulle larghe e perfetti statali della provincia Granda.

Un parcheggio nei pressi di Vinadio si trasforma in nostro campo base. Un incrocio ed un ponte sulla Stura di Demonte nel nostro km zero. Si parte!
In barba alle previsioni del tempo, sembra una bella giornata. Temperatura gradevole, fresca ma non troppo, l’ideale.
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La salita al Colle della Lombarda è molto trafficata nei primi km, a causa dell’intenso traffico di pellegrini intenti a raggiungere il santuario di Sant’Anna. Qui doveva arrivare il giro il giorno del famoso blitz di Sanremo, ma proprio a causa di quello la tappa fu annullata.

Cerco di godermi la salita, nella piacevole compagnia dei compagni trittici. Dopo un inizio tutto tornanti, si fanno posto lunghi rettilinei e pendenze più dolci. Poi una serie di tornanti, rettilineo e altri tornanti. Il paesaggio promette bene.
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Una volta superato il bivio per il santuario, la situazione traffico si fa molto più tranquilla, e possiamo permetterci di vivere la salita nella sua totale larghezza. Qui la vista su quello che ci circonda è fonte di pura soddisfazione e contemplazione. La mente si riempie di pace e gli ultimi km sono una dolce passeggiata nella magia di queste alpi brulle e selvagge.
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Dopo le foto di rito, è l’ora della discesa. Riesco subito a impostare le curve bene, e ciò aggiunge armonia all’armonioso.
In fondo ci aspettiamo tutti, pronti a costeggiare il fiume Tinée per raggiungere St Etienne de Tinée. È un lungo falsopiano, però con pendenze più prossime alla salita vera e propria. Ed è una lunga agonia con un unico vero nemico: il vento. Forte e teso, trasforma questo tratto di fondovalle in una impegnativa lotta contro i km.
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La vera mazzata arriva sulla ciclabile attorno a St Etienne, con uno strappo non durissimo, ma sufficientemente insidioso per farmi piantare. E gli altri come me.
Per fortuna però inizia anche la salita vera e propria, o quasi. Quel che è certo è che i monti riescono a salvarci dal vento, concedendo alle gambe un po’ di tregua.
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Non si può certo dire che i primi km del Col de la Bonette siano i più entusiasmanti del mondo. Pochi tornanti e poco paesaggio che richiama la nostra attenzione.
Prima che la noia si affacci con prepotenza sui nostri pensieri, in località le Pra ci fermiamo a prendere un pezzo di dolce e una lattina di coca. Le mie gambe ringraziano di cuore: un 39x25 trascinato a basse velocità, pur senza faticare, è comunque una fonte di logoramento e di stress per le gambe. Fermandomi si è tutto azzerato.

Si riparte quindi, con qualche caloria in più e rinfrancati nello spirito. Si ride di nuovo.
La montagna sembra ascoltarci, perché inizia un tratto veramente molto bello. Ci sono tornanti, panorami di assoluta bellezza e un sole che tinge ancor più di azzurro un cielo da cartolina.
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Il passaggio da Camp des Fourches è favoloso, e in più d’uno pensiamo che rimettere in sesto una di quelle case non sarebbe male. Sicuramente però si toglierebbe quella magica atmosfera che solo quelle rovine può dare.
I cartelli stradali, con cadenza chilometrica, ci indicano la quota, i km mancanti al gpm e la pendenza media del km successivo. Sono avanti questi francesi!
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Le ultime migliaia di metri che ci separano dal passo sono di una spettacolarità unica. Per quanto poi l’artifizio per ottenere il primato di strada più alta d’Europa sia clamorosamente pacchiano, non si può discutere sulla bellezza di quella lingua d’asfalto che si arrampica nel niente della scura roccia madre. È l’ultimo km, il più duro, il più memorabile.
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Foto e vestiti, poi discesa. Bellissima discesa. Curve da pennellare e bici che scendono sicure per la sinuosa strada verso Jausiers, dove 7 km di fondovalle ci portano all’attacco della terza e ultima salita, il Colle della Maddalena. 17 km di salita molto semplici, per coprire un dislivello di poco superiore ai 600 m.

Come sempre soffro i primi km, poi le gambe iniziano a girare e l’ultimo tratto della salita è un invito immenso a forzare il ritmo. Ma non sono qui per questo. Ci aspettiamo tutti come sempre, e al bivio dopo Larche salutiamo David. Per lui il giro è finito: il campeggio dove è in villeggiatura è a pochi metri. Partito in contemporanea alla nostra uscita dall’autostrada, si è fatto trovare pronto a Vinadio per la partenza.
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Noi 5 proseguiamo e raggiungiamo il colle. Sicuramente il più anonimo della giornata, ma non ci pare il caso di lamentarci di cose così inutili in una giornata totalmente da ricordare.
Ancora foto e vestiti, e poi lunghissima planata verso il parcheggio di Vinadio. Discesa dolce e vento bastardo. Ogni tornante è una sfida all’equilibrio. Ogni rettilineo un ulteriore dazio per raggiungere la meta.
Ma il contakm che si spenge dal nulla mi conferma che la vera meta è già raggiunta, ed ogni numero esistente è tanto vuoto quanto inutile a descrivere empiricamente una giornata così. L’animo è pieno, ed a noi basta questo.