mercoledì 6 luglio 2011

Cuore e testa: Prato-Abetone 2011

La macchina prende la strada verso casa quando i primi del percorso lungo sono già passati. Stanno arrivando quelli un po’ più umani, forse.
La nuova posizione del pasta party impone di risalire circa un km verso l’Abetone, dal versante emiliano, ovvero quanto dista la stazione dell’ovovia dal passo. Mio padre supera agilmente un piccolo gruppetto di reduci del San Pellegrino in Alpe e siamo già nella piazza principale.

Il bar e la sua vetrina bianca di fogli e classiche passa via oltre il mio finestrino. Potrei fermarmi, ma non ne sento il bisogno. Non serve la classifica per convincermi ancora di più: oggi ho vinto io.
Così mi volto e guardo Sara negli occhi. Abbiamo tutti e due una gran voglia di dormire. Giusto due discorsi, poi chiudiamo gli occhi. Tanto c’è “babbo” che guida.

Ah già, prima però tampono l’essudato misto a sangue che esce dal mio mento. Lascio che i ginocchi non urtino e sporchino il sedile anteriore. Fisso i gomiti messi a dura prova e ancora rossi di carne viva in modo da non macchiare i sedili posteriori, la mia maglia e pure quella di Sara.

Adesso si, sono pronto. Posso dormire.



8 ORE PRIMA
La sveglia suona quando mia madre sta entrando in camera per svegliarmi. Giusto un paio di scossoni, per sicurezza. Indosso un paio di pantaloni e scendo velocemente. Yogurt al malto, uno dei miei preferiti, e un bicchier d’acqua. La colazione è già fatta.
Mi svesto e mi rivesto con il completino della squadra, non prima però di essermi sparso un bello strato di crema laddove il mio corpo ha spesso deciso di accumulare i suoi mali. E poi lavata di denti, ultime cose in borsa e via fuori, dove la macchina è già carica. Si può partire.

Era da tempo che mia madre non decideva di venire a vedermi all’Abetone. L’ultima volta fu l’anno della mia crisi spaventosa. Speriamo che vada meglio, stavolta.
Passiamo a prendere Sara da casa. Lei non andrà ad aspettare il mio arrivo, partirà da Prato come me, seppur un po’ prima.

In autostrada i miei discorsi sono cenni ripetuti. Poche parole, stamattina sono teso. Sara se ne accorge e non insiste.
Alla zona della partenza basta gonfiare le bici e mettersi in tasca i rifornimenti e siamo pronti. I miei possono così avviarsi all’Abetone. Mamma farà un po’ di trekking, babbo verrà a passarmi la borraccia fresca nel punto prestabilito. Questa è la Prato-Abetone.

Prime pedalate attorno a una rotonda, e dal niente ci ritroviamo in mezzo alla partenza del percorso cicloturistico, identico all’agonistico con l’unica differenza dell’assenza di classifica. Sara decide di andare con loro e pure io mi aggrego per qualche km, per scaldarmi. Quando è il momento la saluto e sfrutto una rotonda per tornare indietro.

Entro direttamente in griglia senza bisogno di passare dal bagno, o da qualche siepe. Saluto gli amici Carlo e Marco: loro faranno il lungo. A me basta il medio. La vera Prato-Abetone è il medio, e niente me lo toglierà dalla testa nonostante preferisca i lunghi a prescindere.

Partenza caotica come sempre, ma forse un po’ meno del solito. La temperatura è fresca e si sta bene, l’ideale per me. Le gambe invece non sono quelle migliori ma era in preventivo: un po’ la condizione lontana dall’essere quella migliore, un po’ la pessima giornata passata ieri con gran mal di gambe e malessere generale.

Non mi preoccupo più di tanto, magari poi mi sblocco. Così non mi rimane che cercare di arrivare sano e salvo all’inizio della salita delle Piastre, spendendo il meno possibile nell’infinità di rotonde e spartitraffico che troveremo sulla strada. Riesco anche a stare in gruppo meglio del solito, e questo mi tranquillizza.

Si arriva a Pistoia e c’è il solito ingorgo per entrare da una delle porte cittadine. Poi rettilinei e curve, e prime lievi pendenze nella città che ha fatto dei vivai la sua fortuna.

Prime centinai di metri di vera salita: è l’inizio della Porrettana. Solo un accenno però, perché la prima versa salita –le Piastre- dista da qui due km e mezzo. Ormai ci siamo. Nel frattempo lo strappetto finisce e una secca svolta a sinistra ci immette nel preludio alla tangenziale, che però abbandoniamo subito prendendo il primo stretto svincolo in discesa. Siamo così sul vialone delle Piastre. Finalmente la sofferenza è finita.

Prima di iniziare ci vuole un sorso d’acqua: è importante bere poco ma spesso, ci ripetono all’infinito. Lascio la mano dal manubrio e afferro la borraccia.
Ooooohhh, oooohhh, occhioooo!!
I due che mi precedono e le loro ruote posteriori, fra le quali è infilata la mia anteriore, si separano di colpo.
Mi trovo davanti una casacca gialla e blu. Dorsale con numero iniziale 7.
Poi non vedo altro.

L’impatto è violento e vengo sbalzato in aria, la mia bici rimane a terra più indietro. Concludo il mio volo atterrando con il mento. Reagisco istantaneamente alzando la testa per non sfigurarmi il volto, e lascio che a frenarmi sia il resto del corpo.
La testa poi ritorna giù sotto le ruote e le bici di chi mi ha travolto o mi ha semplicemente passato di sopra. Mi proteggo con un braccio. Mi alzo soltanto quando non sento più niente sopra di me.

Continua ad arrivare gente, il gruppo è lungi dall’essere finito, e devo stare attento a non essere investito prima di recuperare la bici. Alcuni stanno ripartendo dopo la caduta, solo uno è nella mia stessa condizione. Mi avvicino alla mia bici confidando nell’attenzione degli altri. La raccolgo e vedo subito che la manopola sinistra è storta come non mai. Il nastrino è strappato ed ho addirittura grattato l’anima del manubrio.

Poi vedo una goccia rossa per terra: è mia. Porto la mano al mento e me la ritrovo insanguinata bene, mentre mi accorgo che dalla faccia è un continuo gocciolare. Ho paura di essermi compromesso il viso. L’altro ciclista però mi rassicura dicendomi che solo il mento è sanguinante, il resto è salvo.

La voglia è quella di ripartire subito ma mi accorgo di aver forato l’anteriore nell’impatto. Maledizione! Velocemente smonto la ruota, saluto il malcapitato che mi ha poco prima rassicurato e chiamo mio padre dicendogli che passerò più tardi a causa dell’intoppo. Cha faccia pure il suo giro. Sara invece meglio non avvertirla, si preoccuperebbe per nulla. Intanto passano due ambulanze: alzo il braccio ma nessuna delle due si ferma. Così alzo il dito medio.

Il rubinetto della bomboletta non riesce ad agganciare la valvola della camera d’aria, e sono nella merda davvero adesso. Grazie a Dio, si fa per dire, un ciclista si ferma e mi offre il suo aiuto. Scopro quindi che è parente di Moser e l’accento sembra dargli ragione. Rimetto tutto a posto nel borsello, e mi accorgo di avere soltanto una borraccia sulla bici. Chissà dove è finita l’altra che avevo in mano? Non lontano, per fortuna, perché per caso la intravedo sul limite del fosso, ai piedi del palo del guardrail.

Finalmente riesco a ripartire, dopo un quarto d’ora. Sento la botta ovunque, soprattutto sul lato sinistro. I gomiti e i ginocchi non sono messi bene, e la spalla e il braccio mi fanno male. Forza Fabio, c’è sempre una prima volta anche per cascare in gara.

Faccio compagnia al signore trentino fino all’attacco della salita. Mi fermo ancora, a sistemare il manubrio storto, ma ci posso fare poco. E poi riparto davvero.

Il tutto si trasforma improvvisamente in rabbia, in voglia di chiudere la questione il prima possibile. Non voglio trascinarmi fino all’arrivo. Voglio fare la mia gara, perché la Parto-Abetone è la mia gara. Se non è contro gli altri sarà contro me stesso stavolta.

I primi 2-3 km dell’impegnativa salita di 8 servono per convincermi di stringere i denti, nonostante le gambe sembrino a pezzi e faccia una fatica bestiale. Intravedo la fila di auto: forse ci siamo, posso ricongiungermi alla coda del gruppo. Ci metto un po’ a sorpassare la lunga processione di macchine.

Ecco l’ambulanza. Si meriterebbero più di qualche parola contro, ma ormai è tardi adesso, non serve più. Così la supero, e faccio lo stesso con il carro scopa. Sono di nuovo dentro.

Sento bene che le gambe sono bloccate, sicuramente migliori rispetto ad inizio salita ma pur sempre le classiche gambe da giornata no. Ma ho testa, e pure cuore. Vado avanti con quelli.
È un continuo sorpasso fino alla vetta, ai 740 metri delle Piastre. C’è un sacco di gente come al solito, anche se molti saranno già andati via ormai. Sento qualche risata, qualche commento. “Dove vorrà andare questo?”, “Pensa di vincere qualcosa?”. Loro non sanno.

Il falsopiano successivo offre respiro alle gambe. Degli altri però, perché io non posso permettermi di riposare e imposto un ritmo attorno ai 50 orari. Riprendo gruppi e mi trascino dietro i più volenterosi, senza chiedere cambi.

La salita di Maresca è sofferenza come ogni volta, evidentemente non fa per me. Fortuna che è breve e che è allietata dalla presenza di un gruppo della mia squadra a bordo strada. Vedono le ferite e mi incitano. A me fa solo bene.

Nella breve discesa non prendo rischi visto il manubrio torto e il fondo ancora umido nelle curve più riparate: un ricordo della pioggia di ieri.
Svolta secca a destra e le pendenze arcigne del muro di Gavinana sono lì ad aspettarmi. Si aggira pure lo spettro di Maramaldo, con la brutta intenzione di infierire su di me, visto che per poco non investo uno sventurato sopraffatto dalla pendenza, che improvvisamente si ferma mettendo piede a terra. Riesco a scartarlo fortunatamente, e termino lo strappo a buona velocità.

Di nuovo prudenza nella discesa verso La Lima, anche se nell’ultimo tratto mi lascio andare maggiormente confidando nella tenuta del malmesso manubrio.

Abetone: 17.5 km. I primi sono facili, nel mezzo pure qualche falsopiano. E sono questi a fare più male, vista l’impossibilità di prendere un ritmo. Supero gruppetti più o meno numerosi lo stesso però, perché è una gara troppo breve per riposarsi. Ed io sono già stato fermo abbastanza.

Dopo il bivio per il Passo Croce Arcana (e gli impianti sciistici della Doganaccia) trovo babbo seduto sul muretto, visibilmente in ansia per vedermi in che stato sono dopo la caduta. Gli dico che è tutto ok, e che non mi fermo per evitare problemi per ripartire. Tanto ci vediamo all’arrivo. Neppure la borraccia prendo, mi faccio bastare quella che ho.

E così inizia la salita vera, quando mancano 13 km al passo. Cerco di gestire le energie che ho, ed è uno sforzo non indifferente, visto che le gambe vorrebbero andare più piano e il cuore più forte. La mente fa da mediatrice.

Uno, due tornanti, e poi ancora sole e ombra, rettilinei e curve continue, salgo bene. Al limite della crisi più volte, e più volte mi sono urlato contro di non mollare. Non adesso che manca così poco, non sul mio terreno, non oggi.

È uno strappare linfa vitale dal mio corpo e al tempo stesso un’esplosione di rabbia e determinazione. Erano anni che non riuscivo ad andare oltre in questa maniera. Forse ci voleva. Perché nonostante la spalla faccia male, non riesco a smettere di tirare quel manubrio strappato e storto, e di spingere su e giù quei ginocchi non più lisci e abbronzati come fino a poco prima.

La mia lotta. Contro tutti. Pure contro l’automobilista che mi suona solo perché mi permetto di sorpassare un altro ciclista e lui ha 7 metri anziché 8 per passarmi con la sua utilitaria. Mi offende dal finestrino, rispondo per le rime mentre mi supera. La coda gli impone però di rifermarsi, e mentre a mia volta lo ripasso non riesco a fare a meno di dirgli “Non lo vedi che vado più forte io... cretino”.

Ultimi due km in volata, a lottare contro il tempo, contro me stesso e contro quelle gambe che iniziano davvero a esplodere, tanto fanno male. Sento un “vai Fabio” proveniente da un punto indefinito: è mamma, ma non so dov’è.



Piazza dell’Abetone, tappeto colorato, arco superato. Io sono arrivato, ed ho vinto. Se per molti non è niente di che o una cosa normalissima, per me è una grande soddisfazione aver fatto una gara del genere, in rimonta solitaria, dopo la caduta. Non mi era mai successo di cadere in gara, ed avevo sempre pensato a come diavolo fanno i professionisti ad alzarsi e ripartire. Adesso lo so. Non fanno male le ferite col numero sulla schiena, fa male soltanto rimanere vittime dei propri dolori e paure.

Il contakm segna 2h44’ puliti: è praticamente il mio record per questa gara. Certo, per il cronometraggio ufficiale ho 15’ in più, ma io so come è andata veramente. Un risultato inimmaginabile alla vigilia, vista la forma e le gambe non reattive. Un risultato figlio soltanto della voglia di lottare e di una testa e di un cuore che, oggi come non mai, sono andati oltre il possibile.

Trovo Federico, compagno di squadra, lui si che va forte. 2h35’, e pensava di andare piano. Bravo Fede, ma adesso devo cercare la mi mamma, La trovo, e vuol vedere subito le ferite. Poi mi dice di aver fatto un video, molto breve.

Poi arriva anche Sara, un po’ preoccupata, e pure babbo. Andiamo all’ambulanza, dove dimentico il rancore precedente e mi faccio medicare. Per fortuna il viso è salvo, tranne il mento, ed è la cosa che più mi preme.

Col sorriso sulle labbra, gonfie dall’impatto, possiamo anche andare a cambiarci e ristorarci al pasta party. Poi un giro in vetta al Monte Gomito. Con l’ovovia però: oggi di salita ne ho già fatta abbastanza.






Non resta che andare a casa, magari schiacciando un pisolino. Ho proprio un gran sonno adesso. E le prime croste iniziano a tirare. Il difficile inizia adesso!

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